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Vecchio 14-11-2004, 04.24.43   #4
afterhours
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IL GRANDE ZIO

La sentenza di chi giustifica questa televisione senza qualità è: più c'è gente più è bello. Ogni produttore si considera democraticamente sollevato dall'Auditel, il suo servizio è giusto, se la somma dei numeri tiene. È come se ogni sera, in Italia, si svolgessero le elezioni, e il programma più votato sarebbe per questo il più democratico, di conseguenza legittimato a governare e a diventare modello dominante. La responsabilità morale nei confronti del pubblico, il giudizio estetico, il valore dei contenuti espressi dal programma, la caratura degli autori e degli interpreti, il gradimento effettivo del pubblico stesso, sono diventati parametri irrilevanti. Espressioni come "il bello della diretta" hanno finito col giustificare la diretta più disgustosa, e una delle più belle parole del mondo, etica, è stata deformata in un muffito sinonimo di censura. Così, parlando con un produttore di reality, sembra di sentire Leporello nel Don Giovanni di Mozart, basta sostituire al "padron mio" la parola "pubblico", e al catalogo delle conquiste femminili del padrone, il palinsesto dei format clonati dal modello televisivo dominante: "Madamina il catalogo è questo…/Osservate, leggete con me./In Italia seicento e quaranta,/in Allmagna duecento e trentuna/cento in Francia, in Turchia novantuna,/ma in Espagna son già mille e tre!"
Credo quindi che non dobbiamo tanto guardarci dal "grande fratello", quanto dal Grande Zio. Il Grande Zio è chi ci propina, da anni, solenni menate come "la televisione è lo specchio del Paese", quando la televisione è nient'altro che lo specchio di chi ci comanda. Il Grande Broglio del Grande Zio è riassunto da queste tre parole: democrazia del telecomando. Perché non esiste. La democrazia del telecomando non esiste per il semplice motivo che il pubblico, cioè noi, soffriamo di doppia personalità, abbiamo, cioè, una coscienza multipla. Il Grande Zio lo sa, l'ha sempre saputo, e solletica la nostra personalità più arcaica e suggestionabile, proponendole i programmi-cadavere di cui è ghiotta. Siamo noi che dobbiamo prenderne atto ed entrare in rivolta. Quando un sito ha annunziato di avere un video-choc sulla decapitazione di uno di quei poveri ostaggi in Iraq, la mia coscienza-zombie, quella che in tutti questi anni di dittatura televisiva camuffata da democrazia, si è lasciata dominare dal Grande Zio, si è precipitata a guardarlo, soggiacendo al piacere del più infame voyerismo. E se stasera in televisione trasmettessero il Colosseo, con i martiri sbranati dalle tigri, la nostra doppia coscienza, o meglio, la più malata delle nostre multipersonalità, ci indurrebbe a guardarlo in massa, e questo non significa affatto democrazia, significa che abbiamo bisogno di un dottore, e la cura è disintossicante. Le medicine si chiamano idea, bellezza, emozione, valore, impegno, poesia. Che non sono parole qualunquiste ma valori smarriti dello spettacolo popolare. Bisognerebbe inoltre avere il coraggio di chiedersi: se io non venissi sbranato ogni sera, al telegiornale, da un catalogo di orrori avvenuti nelle zone più remote del mondo, sarei davvero meno libero? Può darsi, ma certamente l'indomani mi sentirei più sollevato e reattivo. E chissà se questa nuova sorgente di energia liberata, moltiplicata per milioni e milioni di telespettatori, non si solleverebbe come un argine contro la violenza del quotidiano in ogni oscura parte del mondo. In altre parole, il pluralismo, la libertà di stampa, la democrazia televisiva, la si ottiene sottoponendosi a questa via Crucis nella cronaca nera della terra, o non sarà proprio questo mix d'ineluttabile sangue a renderci disperati e impotenti, fino a ridurci in letargo, sordi e ciechi, e a non farci pretendere dall'informazione di mostrarci, per esempio, le promesse non mantenute da questo governo, rendendoci partecipi soprattutto delle cose che possiamo cambiare? Questo è ciò che chiamo la strategia trasversale del Grande Zio, che con una mano occulta e oscura, mi fa dimenticare ciò che non ho e avrei il diritto di avere rappresentandomi la minaccia di quel che mi potrebbe succedere, e con l'altra mi seduce mille volte riproponendomi, per esempio, l'ipnotico crollo delle torri gemelle di Manhattan, e persuadendomi che il Male viene sempre dalla parte opposta del mondo. È questo, credo, il palinsesto al quale bisogna sottrarsi. Bisogna cambiare catalogo. Bisogna avere il coraggio di dire: "Madamina, il catalogo è un altro", anche a costo che i pubblicitari cambino cliente. Torneranno. Se noi ricuciamo la nostra doppia personalità, torneranno. Se invece della mediocrità, daremo spazio alle idee, torneranno. Ma siamo noi, noi autori, noi registi, noi attori, noi produttori, noi funzionari e direttori di rete, che dobbiamo ritrovare il senso del nostro impegno, assumerci l'infinita responsabilità dalla quale ci siamo colpevolmente sottratti, quella di lavorare nell'inconscio collettivo del mondo. E non è retorica affermare che in questo mestiere è obbligatorio essere trasparenti come bambini. E prima di valutare i costi o l'Auditel, prima di sommare numeri a casaccio o reclamare sguaiatamente la democrazia del telecomando, bisognerebbe sottoporsi al proprio giudizio, ma quello autentico, non parziale, di soli numeri, un giudizio complessivo fatto di immagini, suoni e parole, un giudizio in cui ogni cosa è illuminata, tornando a chiedersi, semplicemente, se un programma è bello o brutto, se gli interpreti sono bravi o scadenti, se i testi sono originali o clonati, se lo facciamo solo per soldi o se ci crediamo davvero, e in questo caso quanto siamo disposti a rischiare per trasmettere la nostra emozione a tanti fratelli, invece di abbassare la fronte per ricevere la carezza del Grande Zio, sottolineata da un facile e sempre autoassolutorio applauso telecomandato.

Diego Cugia

http://jackfolla.splinder.com/
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