Una dimensione parallela e talvolta speculare, distante dalla realtà europea e nordamericana. Un paese in piena esplosione demografica, preda succulenta per chiunque cerchi un moderno far east aurifero: abbondante mano d'opera specializzata (e non) a basso prezzo. Questa è la Cina moderna. Il gigante dai piedi d'argilla che sta convertendosi all'occidentalità - a modo suo. Infatti il colossale apparato produttivo della Cina, che negli ultimi anni è in preda ad una vera rivoluzione IT, sembra avere un unico tallone d'Achille, strutturalmente inconciliabile con l'impostazione politica e sociale del Grande Drago. Un problema eminentemente informatico che appartiene alla sfera digitale: i cardini hardware e software, sui quali poggia l'esplosiva economia cinese, sono tutti made in the West.
Situazione inaccettabile per un governo invadente ed onnipresente, che accompagna il cittadino dalla culla fino alla bara. Un governo che controlla e censura, pianifica ed appiattisce, nazionalizza e fomenta ideologie. Ecco perchè la Cina lancia una grandissima sfida all'establishment tecnologico occidentale, ancora poco chiara ma indirizzata verso un obiettivo ben preciso. La Cina vuole innalzare una Grande Muraglia tecnologica, barricandosi nell'autarchia digitale.
Con questo termine si intende un preciso sistema economico ed informatico, rinchiuso nella sfera d'influenza cinese e costruito con mattoni tecnologici proprietari. Un fenomeno relativamente recente che riflette la già sperimentata anima politica-economica del colosso asiatico, già membro della WTO ma spiccatamente autonomo rispetto all'onda lunga delle democrazie occidentali.
Negli anni ottanta i turisti cinesi affollavano le città occidentali, armati di macchine fotografiche e telecamere. Conosciamo tutti la "leggenda metropolitana" dei commessi viaggiatori cinesi, spediti in missione nelle venues dell'alta moda europea per copiare i modelli di grido. Evidentemente questa tattica di spionaggio industriale non appartiene alla moderna mitologia, come la cosidetta "inondazione dei falsi" sembrerebbe testimoniare. Per contrastare questa tattica truffaldina, in Europa abbiamo un nuovo protezionismo, basato sul monopolio dei "marchi di qualità" e delle "certificazioni d'origine".
La strategia adottata dalla Cina nel settore dell'IT è sostanzialmente identica: importare tecnologie per poi, attraverso vari processi di reverse engineering ma anche di ingegneria industriale, riproporne versioni nazionalizzate a costo dimezzato. Software ed hardware nazionale, patriottico, che disancori finalmente la Cina da una "pericolosa dipendenza" tecnologica dall'Occidente. Se il Grande Drago riuscisse nel proprio intento, in futuro potrebbe persino scardinarsi dal sistema dell'alta tecnologia occidentale, disponendo di circa un miliardo e mezzo di cittadini pronti per un'informatizzazione di massa made in China.
Il risultato avrebbe dell'incredibile: la Cina scapperebbe dalle grinfie monopolistiche delle grandi software-house, rinchiudendosi in un solido mercato interno basato su standard proprietari. Negli ultimi anni, da quando il PCC ha prescritto una cura di iniezioni finanziarie multimiliardarie per l'industria tecnologica, gli esempi di "reverse engeneering" finalizzati all'autarchia digitale sono molti. Come ha sottolineato un celebre studioso di storia asiatica, Richard Suttmeier, "la dipendenza dall'industria tecnologica straniera, e conseguenzialmente le tattiche per evitarla, sono temi prioritari nella moderna storia cinese".
Il piano proposto dalle autorità di Pechino è estensivo e comprende l'assimilazione statale di ogni aspetto della società dell'informazione: nazionalizzazione dai supporti ottici (DVD e CD), delle piattaforme software, dei protocolli per la telefonia mobile. Il tecnonazionalismo, unito al controllo sistematico della cultura (censura sui media, sia nuovi sia tradizionali), porta conseguenzialmente ad un modello autonomo cinese di postmodernità.
Nei primi anni di informatizzazione (il periodo che va dal 1996 al 1999), la Cina ha speso oltre 30 miliardi di dollari per stendere 100000km di fibre ottiche, dotandosi di numerosi strumenti Microsoft per muovere i sistemi informativi governativi, tra cui lo Shangai Stock Exchange ed il Peoplès Daily (quotidiano ufficiale del PCC). Adesso le cose stanno cambiando, anche se fiaccate dall'onnipresente problema del digital divide. Dal 2001 in poi la Cina ha iniziato, in maniera silenziosa, a sviluppare standard proprietari basati su tecnologie importate, su cui costruire la propria visione di futuro digitalizzato. Una nuova "lunga marcia" che, analizzando la struttura profonda del paese, ben si coniuga con l'assetto sociale corrente. Il software sviluppato in Cina sostituirà gradualmente gli altri sistemi informatici largamente diffusi.
I sistemi operativi sono le pietre angolari di qualsiasi forma di digitalizzazione dati. La Cina quindi sfida i colossi nordamericani con la propria bandiera: il cosidetto Linux RedFlag, il Linux potenziato dalla "forza del popolo cinese". Il nome è autoesplicativo: si tratta di una versione "popolare" (in senso politico) del famoso OS ideato da Torvalds. Il progetto, finanziato dal governo e sostenuto da un folto sottobosco accademico di programmatori appassionati (spesso provvisti di un curriculum d'eccellenza, corredati da studi negli epicentri tecnologici europei ed americani), intende essere una valida alternativa a Windows. Entro il 2005, comunicano le fonti ufficiali, la stragrande maggioranza dell'amministrazione pubblica cinese sarà equipaggiata con questa solida distribuzione Linux.
Successivamente, persino i diffusissimi Internet-cafè e gli utenti casalinghi saranno portati a scegliere l'alternativa informatica nazional-popolare, più "sicura" (perchè sviluppata secondo determinati concetti di sicurezza nazionale), più "economica" (finanziata dallo stato) e sopratutto più "culturalmente compatibile", perchè made in China.